Il mio nome è Nessuno
di Enrico Pandiani

Enrico Pandiani nasce una cinquantina d'anni fa a Torino. Fin dalla più tenera età tiene in mano una matita o un pennarello o un pastello con i quali disegna tutto il giorno. Crescendo questa passione diventa un hobby a tempo pieno e in seguito una professione. Apre nel 1989 uno studio di grafica con un socio. Intanto scrive. Nel 2009 pubblica Les italiens, il primo romanzo della saga dedicata al commissario Mordenti, dopo altri tre libri dedicati alla sua squadra Les Italiens, nel 2012 pubblica l'ultima avventura, Pessime scuse per un massacro (Rizzoli). La donna di troppo (Rizzoli), giallo pubblicato nell'aprile del 2013, inaugura una serie tutta nuova che vede come protagonista la detective privata Zara Bosdaves. Il suo blog è “Les Italiens”.

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Di mio fratello Mario ho sempre ammirato la capacità, per me sovrumana, di riuscire a “creare” oggetti partendo dal nulla. In tutti questi anni nei quali ho visto formarsi questo suo cammino in continua mutazione mi è stato difficile riuscire a stargli dietro. Non ho nemmeno tentato, quindi, di capire dove stesse andando, dove lo avrebbe portato questo suo navigare a vista in un oceano fatto di oggetti possibili e impossibili, affascinanti e curiosi.

Tracce, Mario ne ha lasciate parecchie, anche quando la sua opera sembrava svanire in un nulla dal quale, in maniera per me inspiegabile, uscivano invenzioni nuove, sempre sorprendenti. La rinuncia, per lui, non è mai stata tale. Si è trattato, piuttosto, del continuo perdersi nell’attrazione di qualcosa di nuovo, su un cammino instancabile e incerto.

La sua ricerca, simile a quella dei personaggi cui si ispira questo nuovo, ma immagino non ultimo, lavoro - il capitano Nemo, figura cui entrambi siamo stati legati in maniera indissolubile fin dall’infanzia, e Odisseo, eroe impossibile da inquadrare, la cui storia porta verso un futuro incerto, ma ineluttabile - passa attraverso un miscuglio di conoscenza colta e sorprendente abilità manuale, di capacità innata ed energia, che a ben vedere, richiama, tra passato e futuro, la tecnologia che muove il meraviglioso sommergibile del film Ventimila leghe sotto i mari.

A ripensarci, ho sempre immaginato Mario chiuso in un suo mondo immaginario, nel quale fantasia e realtà prendevano forma attraverso libri, carte, disegni, legni, metalli veri e finti, luci, trasparenze e opacità che soltanto lui era in grado di vedere. La sua opera, assolutamente unica, è il mezzo con il quale comunica con l’esterno, l’algoritmo che consente a chi guarda dall’esterno, e abbia voglia di “indagare” su di lui, di poter seguire il cammino sul quale ha dato una risposta a quesiti dei quali non conosciamo la domanda.

Nemo e Odisseo, simili e diversi allo stesso tempo, legati da un nome che per il primo è una scelta e per il secondo una necessità, vivono le loro storie in un mondo fatto di domande e scoperte. Ho sempre pensato che la stessa cosa avvenga nell’immaginario di Mario, la necessità di muoversi all’interno di una cartografia mitologica della quale trova l’orientamento grazie alla curiosità e le cui risposte giungono attraverso indizi che forse soltanto lui è in grado di vedere. Tuttavia, possiamo cercare di interpretarli grazie ai suoi lavori.
Le cose che mette davanti ai nostri occhi, però, non sono mai quello che sembrano; sono scatole cinesi dentro alle quali c’è sempre qualcosa da scoprire. Sono buchi della serratura, spioncini, attraverso i quali l’indagine rischia di prendere altre vie, si confonde aumentando lo spaesamento e, al contempo, la meraviglia.

Non c’è nulla di ovvio o di scontato. Mario non lascia impronte chiare o indizi palesi. Nel suo sommergibile ci si perde in profondità abissali dalle quali è però sempre possibile vedere la superficie. La percezione della realtà che si è portati a provare, viene immediatamente smentita, sminuzzata, moltiplicata in un caleidoscopio di luci, colori, trasparenze, sensazioni che ne annebbiano l’origine e confondono il punto d’arrivo.

Quello che ci troviamo a interpretare, è un linguaggio che pensiamo di aver capito, soltanto per scoprire che non è così, che c’è sempre dell’altro. Tutto ciò che è stato si è accumulato e, ogni volta, si è ripresentato con una forma nuova. Una ricerca del proprio spazio e, soprattutto, di un punto di osservazione che non può mai essere lo stesso.

È una trasmutazione continua, quella che avviene negli universi impalpabili, un passaggio attraverso lo specchio nel quale Mario incontra Markos Tsomidis, l’uomo con il fez, il suo alter ego levantino e indolente, che lo guarda chiedendo in continuazione qualcosa di nuovo. Attraverso i fumi oppiacei e dolciastri del narghilè, Mario e Tsomidis si osservano e i loro sguardi sono domande. Come, per uno scrittore, l’eroe di un romanzo, Markos può permettere tutto ciò che sarebbe impossibile nel mondo reale. Ma rappresenta, forse, anche il punto di arrivo al quale portano tutte le mappe e le costellazioni e al quale può giungere soltanto chi è capace a riconoscersi, guardando dentro se stesso.